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Dove va la biopolitica?

Il Fondo Magazine - 14 aprile 2009

Francesco Boco

 

La questione della tecnica sollevata dalla filosofia europea novecentesca ha anticipato problematiche che solo oggi vengono formulate in tutta la loro complessità. È interessante il fatto che prima di arrivare alla cosiddetta bioetica o, per meglio dire, alla biopolitica, si è dovuti passare per un’ontologia fondamentale della tecnologia. Secondo Heidegger la tecnica è il modo della verità dell’Essere nel tempo del nichilismo compiuto; l’essenza della tecnica è l’impianto, il collocarsi e l’estrarre le energie e le risorse dall’ambiente circostante. In un tale processo di sviluppo tecnologico, tuttavia, ne va anche della natura stessa dell’uomo, il quale viene a sua volta toccato direttamente e, se vogliamo, modificato dagli strumenti che utilizza. Per quanto paradossale possa sembrare, negli anni a venire è probabile che la visione metafisica soggettivistica verrà meno, per lasciare spazio a una più autentica comprensione e compenetrazione tra carne e tecnologie. Naturalmente questo processo di mutazione non è privo di rischi, ma esso resta comunque un esito destinale della nostra tradizione culturale europea.

È precisamente da una necessaria rivendicazione dell’eredità passata che prende le mosse la conversazione condotta da Adriano Scianca con Stefano Vaj sulle pagine di "Dove va la biopolitica?", interessante pamphlet intervista uscito recentemente per il Settimo Sigillo di Roma. Stefano Vaj ha già trattato diffusamente delle tematiche riguardanti la bioingegneria, la bioetica, gli ogm ecc. nelle pagine del suo libro "Biopolitica, il nuovo paradigma" (pubblicato on line sul sito [ + ] e nell’intervista in esame riassume e approfondisce utilmente alcuni aspetti del suo saggio, integrando vari punti con dati aggiornati.

Secondo l’autore i campi in cui collocarsi, in relazione alle tecniche biopolitiche, si stanno sempre più definendo in un dualismo tra posizioni neoluddite / primitiviste e sovrumaniste / transumaniste tra cui non v’è conciliazione possibile. Quando Vaj parla di un’eredità da rivendicare si riferisce ancora una volta alla concezione storica destinale e originaria propria alla cultura indoeuropea, la quale considera l’origine come un qualcosa da ricreare e rigenerare continuamente, attraverso una riaffermazione volontaria del substrato storico-mitico passato. È dunque necessario, in un’ottica schiettamente nietzscheana e sovrumanista, riannodare i legami col passato più lontano, al fine di preparare lo slancio verso l’avvenire. In quest’ottica la trasformazione antropologica che s’intravede non ha nulla di “innaturale” - d’altronde da quando esiste una civiltà in senso spengleriano l’uomo non può più essere considerato “naturale” visto che ambiente e uomo si modificano a vicenda -, ma è l’esito di una volontà politica che ha avuto un inizio ben preciso e che ha tracciato un percorso dal quale si può certamente deviare, ma che può essere allo stesso modo proseguito e prolungato.

«Non è un caso che il maturare della tecnica moderna e la progressiva irruzione della biopolitica come domanda di un’autodeterminazione umana che si spinge ad ogni aspetto del nostro “ambiente” corporeo e fisico e spirituale coincidono con il progressivo ampliarsi delle nostre conoscenze relative al nostro passato più lontano» (p. 11). Vaj si rifà schiettamente a una visione futurista del mondo e della politica in senso lato, condividendo l’idea di Arnold Gehlen e di Giorgio Locchi secondo cui la cosiddetta “era civile” si avvia inesorabilmente al tramonto, preparando il tempo di una rivoluzione radicale di tutto l’essere umano. Le biotecnologie stanno preparando una nuova rivoluzione neolitica, un passo ulteriore nella storia dell’uomo che conduce a una vera rivoluzione antropologica.

Sarebbe errato pensare che solo in tempi relativamente recenti l’uomo si sia preoccupato di educare i suoi simili secondo un modello preferenziale, arbitrario (estetico, antropologico) e artificiale; basti pensare alle pratiche eugenetiche di Sparta, Roma o ancora all’educazione dei cittadini di cui tratta Platone ne La Repubblica. L’uomo antico già si preoccupava di dare una forma, di con-formare secondo un modello ideale, la propria comunità, ed è precisamente da questo auto-disciplinamento che hanno origine le razze umane, intese nel senso più ampio. Il fattore culturale, vale a dire artificiale, attivistico, in questo processo durato millenni, è del tutto evidente.

Come fa d’altra parte notare il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, l’uomo, specie quello europeo, non può conservare la propria esistenza e durare nei secoli che attraverso un’auto-educazione, un’originaria messa in forma dei propri istinti e una modificazione dell’ambiente circostante: non vi sarebbe vita umana senza mutamenti del territorio abitato. E d’altronde, il rapporto è senza dubbio di reciprocità, per cui anche l’ambiente influisce sugli aspetti culturali e antropologici di una civiltà.

In una visione siffatta, i mutamenti che si intravedono all’orizzonte non hanno soltanto un aspetto inquietante, ma assumono anche il significato di una sfida storica destinale da raccogliere e prolungare nel tempo. Soltanto prendendo in mano il suo destino in senso totale l’uomo può guadagnare le libertà creativa che nel corso degli anni è andato delegando. Vi è nel profondo il richiamo a un’origine mitica che sta nel lontano passato e attende di realizzarsi nel futuro.

I nemici dello spirito faustiano, sovrumanista e prometeico si schierano sempre più contro i filosofi e i teorici di un uomo libero e sovrano di sé, insistono piuttosto sulla necessità di frenare questa oscena sfida al cielo, poiché l’uomo trova la sua dignità nella sottomissione e nella umiltà. In realtà questi timorosi pastori dell’uomo intendono conservare nelle proprie mani quella “magia-tecnologica” che finisce inevitabilmente con l’influire sulla vita di tutti; ancora una volta il rischio è quello di concedere ad altri un potere che non ci si sente in grado di riaffermare e rivendicare. Quanto affermato da Stefano Vaj in queste settanta pagine scarse assume sempre più il significato di un salutare sprone a prendere in mano la propria storia e il proprio destino, sollecitando un pensiero-azione che si inserisca nel solco tracciato anni fa da Martin Heidegger: «ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca».

Da: Il Fondo Magazine - 14 aprile 2009

 

 

 

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