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Rischio estinzione. A meno che ci si svegli

Un futurismo per il XXI secolo. Oggi, come sempre, il rifiuto del declino umano e della scomparsa delle proprie rispettive appartenenze infatti, vanno insieme. E il domani apparterrà come sempre non ai "realisti" di oggi, ma a chi ha una visione per l'avvenire. L'uomo davanti al bivio di scegliere

Il federalismo - Anno 10, numero 46, 27 novembre 2006

Stefano Vaj

 

Negli ultimi anni le freddolose società europee sembrano sempre più percorse dall’ideologia della decrescita e dalla maledizione per lo spirito faustiano, tanto più insidiose per il loro appello trasversale.
Tale ideologia, ci si dice, è solo buon senso, è cool, è politicamente corretta perché risparmierebbe ipoteticamente risorse per l’ambiente o a favore di altre zone del pianeta, e soprattutto è facile e non richiede sforzi. Anzi, rende più agevole accettare, se non auspicare, calo della capacità produttiva, disindustrializzazione, riduzione degli investimenti in ricerca fondamentale, declino demografico, abbandono delle ultime vestigia di un’autorevolezza internazionale già del resto abdicata a favore di altri, restrizione dei servizi a quelli sostenibili, decadenza economica camuffata da saggia morigeratezza e senso di responsabilità. Non che vi sia naturalmente da aspettarsi cambiamenti nel sistema di valori: come mostra Guillaume Faye in Nsc. La nuova società dei consumi - oggi integralmente online a Uomo Libero [ + ] - una società non ha affatto bisogno di essere ricca o frenetica per essere consumista e mercantilista: basta come status symbol sostituire a palazzi, fabbriche e vere ricchezze l’accesso a piccole mode e gadgets da quattro soldi fabbricati altrove.

Similmente, una società può rifiutare l’investimento e lo sforzo e i cambiamenti e le crisi di trasformazione che la tecnologia comporta; o addirittura rigettarla ideologicamente limitandone le applicazioni; e goderne ancora per un limitato tratto i frutti. Può forse ancora tirare avanti decentemente e gattopardescamente per una generazione, a condizione di tirare progressivamente la cinghia e mangiarsi il capitale: dopo di noi il diluvio; suvvia, se anche non siamo alla fine della storia, siamo alla fine della nostra.

Serge Latouche, Havelock Ellis e Francis Fukuyama si spartiscono così il comodino degli intellettuali di destra e di sinistra, mentre nessuno chiarisce dove mai la gioiosa accettazione della nostra decadenza, nel quadro di un sistema globalizzato e a sua volta in via di cristallizzazione e ristrutturazione, potrebbe consentire il reperimento delle risorse tecniche ed economiche e intellettuali che risultano necessarie al recupero del disastrato ambiente europeo, alla tutela della sua biodiversità, o al mantenimento alla sua popolazione di servizi che siamo oggi abituati a considerare come minimi, per non parlare di beni intangibili come la sovranità.

Ma le radici della filosofia della rinuncia che tutto ciò descrive sono culturali prima ancora che politiche o economiche, e nel nostro Paese sono particolarmente profonde. Primitivismo e tradizionalismo, i pastorelli d’Arcadia e il buon selvaggio hanno sempre accompagnato la diffidenza monoteista per il peccato d’orgoglio luciferino che la tecnica, la potenza, lo sviluppo, la scoperta e l’avventura rappresentano, anche come minaccia a modi di vivere più modesti e semplici - del resto più o meno fantasiosi - cui si spera inspiegabilmente che l’evoluzione delle cose, e la concorrenza di altri popoli e soggetti politici, ci lasci tranquillamente ritornare. L’aspirazione alla staticità, al ritorno alla natura, all’immutabilità dei modi di vivere diventa poi tanto più forte quando con la rivoluzione industriale prima e quella biotecnologica poi, siamo divenuti responsabili (come come ho cercato di mostrare nel mio saggio Biopolitica. Il nuovo paradigma) non solo del paesaggio terrestre ma della più intima fibra del mondo vivente e dell’uomo stesso.

Una risposta a tutto ciò non può d’altronde limitarsi a un miope laissez-faire, nella speranza che la tecnologia guidi e governi se stessa, in particolare autofinanziandosi e dotandosi di una strategia; o che qualche meccanismo economico o provvidenziale garantisca di per sé il nostro futuro, per tanto che il suo operare non sia attivamente impedito. Chi ritiene che l’unica cosa di cui occuparsi siano i listini di Borsa o la demagogia a breve termine, abbandona effettivamente l’ecologia o la bioetica o la politica industriale quale terreno di caccia quasi esclusivo ad ambientalisti e neo-ludditi, e non percepisce che soltanto la ripresa di una tradizione consapevolmente futurista può rappresentare un’alternativa credibile al neo-pauperismo, all’anti-prometeismo e alle ideologie del declino che sostengono, incoraggiano e giustificano la decadenza che minaccia il nostro avvenire.

Milano, già tra i motori della rivoluzione industriale nell’Europa continentale, con i manifesti marinettiani [ + ] diventa infatti l’epicentro di un sommovimento radicale le cui ramificazioni restano sottovalutate, e la cui vera, visionaria, portata non possiamo in fondo che cogliere oggi, dalla nostra prospettiva privilegiata di spettatori di quella possibile rottura del tempo della storia che agli inizi del Novecento non faceva che annunciarsi all’orizzonte. Ed è particolarmente simbolico del monito heideggeriano di come l’essenza della tecnica non abbia in realtà nulla di tecnico il fatto che si sia trattato prima di tutto di un movimento artistico. «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. (...) Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. (...) Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!».

Ma ciò che rileva qui è soprattutto la visione del mondo e la filosofia che stanno dietro al movimento artistico, che giungono a essere subito declinate nella forma più provocatoria e radicale, in toni apertamente superomisti e transumanisti: «Bisogna dunque preparare l’imminente e inevitabile identificazione dell’uomo col motore, facilitando e perfezionando uno scambio incessante d’intuizione, di ritmo, d’istinto e di disciplina metallica (...) Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono delle ali. Il giorno in cui sarà possibile all’uomo di esteriorizzare la sua volontà in modo che essa si prolunghi fuori di lui come un immenso braccio invisibile il Sogno e il Desiderio, che oggi sono vane parole, regneranno sovrani sullo Spazio e sul Tempo domati. Il tipo non umano e meccanico, costruito per una velocità onnipresente, sarà naturalmente crudele, onnisciente e combattivo. Sarà dotato di organi inaspettati: organi adattati alle esigenze di un ambiente fatto di urti continui».

L’approccio vitalistico e faustiano alla tecnica che rappresenta il vero nemico dell’ideologia del neoluddismo, della decrescita e dell’umanismo, connota del resto la maggior parte delle riflessioni, esperienze e movimenti di opinione che al futurismo risultano in qualche modo apparentate, tra cui non si conta solo il piccolo movimento esplicitamente neofuturista presente sul Web, ma il sovrumanismo di Arnold Gehlen e Giorgio Locchi della seconda metà del Novecento, o le riflessioni contemporanee sul postumano di autori tanto diversi come Peter Sloterdijk [ + ] ed Hervé Kempf (cfr. La révolution biolithique), per finire con la crescente visibilità nel nostro paese della Associazione Italiana Transumanisti [ + ] , il cui presidente, il filosofo mantovano Riccardo Campa, è di recente assurto ad un ruolo direttivo nel movimento mondiale cui l’associazione si riferisce, la Wta.

È vero infatti che l’eco globale del futurismo, che non a caso arriverà a definire a livello mondiale il concetto stesso di avanguardia e ad acquisire estensioni ed esponenti di spicco in vari Paesi, non gli impediva di essere un movimento fortemente radicato e apertamente nazionalista, di un nazionalismo che stante l’esprit du temps non potrà che essere italiano, e che potrebbe dispiacere a chi oggi nel nostro Paese preferirebbe un riferimento europeo o viceversa padano. Ma ciò che tale apparente particolarismo implica è in sostanza il rifiuto dell’idea tranquillizzante di una pacificazione definitiva in cui all’abbandono della trasformazione tecnica del mondo dovrebbe corrispondere la fine delle sue trasformazioni politiche e dei suoi conflitti; e con essi delle sovranità, delle differenze e delle grandi ambizioni collettive che della trasformazione tecnica sono dal neolitico in poi sempre stati il motore.

D’altra parte, il futurismo coniuga il suo feroce identitarismo con il riconoscimento del fatto che alla trasformazione a seguito della quale l’uomo sarà nietzschanamente chiamato ad ereditare la terra non si può sfuggire, magari rincantucciandosi in qualche isolazionismo o periferia locale; essa coinvolge l’intera specie, ed anzi appunto l’intero pianeta; senza anzi che questo debba essere considerato per tutti i secoli dei secoli l’unico orizzonte dell’avventura umana, come qualche anno dopo l’inizio di una pur stentata e sottofinanziata era spaziale starà a dimostrare.

Ripensare l’eredità futurista risulta perciò un presupposto necessario non solo in vista del rifiuto del declino e dell’estinzione delle proprie rispettive appartenenze, ma anche in vista di una risposta più generale alle sfide della nostra epoca, e che coinvolgeranno tutti, ambientalisti e neoludditi compresi. Oggi come sempre, infatti, le due cose vanno insieme, e il domani apparterrà come sempre non ai realisti di oggi, ma a chi ha una visione per l’avvenire.

Da: Il federalismo - Anno 10, numero 46, 27 novembre 2006

 

 

 

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